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©Albino CECE Giornalista Pubblicista AMBASCIATRICE DI PACE Aurunci quale spazio del sacro
I segni del sacro impressi nella terra aurunca la rendono simbolo visibile dell’universalità cristiana. Mentre Cristo rendeva lo Spirito, si squarciò la montagna di Gaeta ma ben presto la Vergine Bruna pose la sua dimora sul monte d’Itri per offrire al mondo la speranza della Resurrezione. Laddove le colpe dell’umanità procurando la morte del figlio di Dio lacerarono il Creato; là si presentò Maria quale àncora di salvezza per i naviganti della vita. Ella venne dall’Oriente, sua patria, per offrirsi come fondamento per un legame nuovo tra due mondi lontani e pur vicini. Ella venne su questo Monte per ricordare agli uomini che la morte del Figlio come aveva sconvolto l’ordine naturale delle cose così doveva sconvolgere l’assetto delle coscienze umane per instaurare un rapporto fraterno universale. Ella resta, quindi, sul Monte della “civitas Dei” col Figlio Bambino che poggia la mano protettrice sul globo terrestre, in attesa che questi due mondi, l’Oriente e l’Occidente, s’incontrino, si parlino, si diano una mano per percorrere insieme la strada della vita, con lo sguardo fisso alla Gloria di Dio. Ella venne dall’Oriente e pose la sua dimora tra le antiche genti aurunche perché da queste balze scoscese, tra questi dirupi solenni aperti alle profondità del mare, lo spirito dell’uomo è disponibile a cogliere il senso della sacralità della vita, della comune origine dell’umanità che riecheggia nel significato nascosto del nome della stirpe. Ella venne dall’Oriente e qui si trattenne perché nell’origine orientale di questo antico popolo aurunco scompaia ogni conflitto di razza e possano crearsi le condizioni di un incontro tra l’Oriente e l’Occidente. Qui approdò Ulisse nel suo peregrinare; qui approdarono i primi uomini santi della Chiesa appena nata in Oriente. Una terra questa della Civita che Maria ha benedetto con la sua costante presenza ma dalla quale attende un gesto di impegno per contribuire alla costruzione di quell’universalità religiosa tanto agognata dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che qui venne pellegrino di pace. In occasione del Giubileo del Millennio intendiamo offrire al Cristianesimo e all’Islamismo l’opportunità di un incontro tra i due mondi perché si possa intraprendere un comune cammino sotto la protezione della Madonna Bruna, ambasciatrice di pace venuta dall’Oriente. L’antica religiosità aurunca Il mondo aurunco entra nella storia nel 314 a.C., cioè nel momento stesso in cui i romani ne distrussero la civiltà. L’estensione territoriale della dominazione aurunco-ausone, così come ci è stata tramandata dai vincitori storici greci e romani, fu variamente indicata. L’unica certezza che possiamo desumere dalla lettura degli antichi autori è quella secondo la quale l’etnìa aurunca-ausone, di fronte all’aumentare della pressione conquistatrice dei romani, restrinse gradualmente la sua influenza fino a ridursi confinata nell’ultima sua ridotta roccaforte compresa tra la riva destra del Garigliano fin verso Terracina; cioè entro gli attuali limiti territoriali occupati dai massicci degli Aurunci e degli Ausoni. La vera battaglia nella quale si decisero le sorti dell’etnìa aurunca-ausone fu, però, quella combattuta nel 340 a.C. (cioè 36 anni prima della sua definitiva sconfitta per mano romana) a Trifano, una località non ancora identificata con certezza. Al di là del problema della sua precisa collocazione, questa località si trovava certamente nell’attuale area aurunco-ausone “inter Sinuessam Minturnasque”, come ci indicano gli antichi autori A causa delle continue imprecisioni storiche che avvolgono la sorte degli ultimi italici di stirpe ausonica e la pressoché unica fonte storica costituita da Tito Livio, più volte accusato di partigianeria verso il romano vincitore dagli studiosi che si sono occupati della sua opera, non ci sembra affatto azzardato dubitare addirittura dell’esistenza stessa di Trifano come città vera e propria. Dal punto di vista etimologico, la parola Trifano può avere il doppio significato di luogo tre volte sacro oppure luogo sacro a tre divinità... Noi affermiamo che la località Trifano non esisteva in quanto agglomerato urbano bensì come nome racchiudente in sé diverse località, un luogo cioè della centralità religiosa del popolo aurunco. Infatti, nelle lingue che hanno continuato il latino, sono sopravvissuti i continuatori di templum, mentre è andato completamente perduto fanum, interpretato dai primi scrittori come “tempio pagano, luogo di perdizione”. Ci è facile immaginare come il mondo aurunco-ausone, posto di fronte al prevalere della forza romana, si ritirasse gradualmente fino all’estrema difesa delle sue cose più care. E la cosa più cara a quell’antico mondo non poteva che essere il suo spazio sacro più importante, quello verso cui tutto il popolo rivolgeva il suo pensiero religioso perché sede delle sue maggiori divinità. Concepiamo, perciò, l’antico spazio sacro aurunco-ausone del territorio compreso tra Terracina ed il Garigliano alla stessa maniera in cui oggi il cattolico concepisce la città di Roma, l’islamico guarda a La Mecca e l’ebreo rivolge il suo pensiero a Gerusalemme. La religiosità mariana La prima menzione storica della chiesa di Maria della Civita la troviamo soltanto nel 1147 leggendo la donazione "de una petiola de terra… et de una disertina de vinea" che il giudice e notaio Gualgano di Itri offre a questa chiesa. Dall'atto sappiamo che: · la chiesa era stata "riedificata" dal greco Padre Riccardo, abate del monastero di San Giovanni Evangelista in Figline, da cui essa dipendeva; · la chiesa era tenuta in custodia dal frate Bartolomeo. Da questo documento risulta evidente che se la chiesa era stata "riedificata" da un allora (anno 1147) ancora vivente abate Riccardo dobbiamo supporre che essa sia stata edificata in epoca anteriore non identificabile per mancanza di qualsiasi documento storico ma che doveva, comunque, essere tanto anteriore da rendere necessaria una sua "riedificazione". Se per "riedificazione" voglia intendersi un intervento parziale o totale questo, allo stato attuale delle ricerche, non è possibile rilevarlo dagli antichi documenti. Possiamo però individuare con qualche esattezza l'epoca di fondazione del vicino monastero di S. Giovanni Evangelista in Figline. Nel 1036, a questo monastero veniva donato dal senatore Leone di Gaeta e dalla consorte Letizia il vicino Casale d'Ercole. Nel documento i donanti affermano che lo stesso monastero era stato fondato dal console Giovanni e dalla consorte duchessa Emilia che erano rispettivamente padre e suocero dei donatori. Il console Giovanni tenne il ducato di Gaeta dal 984 al 1008 secondo quanto afferma il Federici anche se, forse, si potrebbe fare riferimento a qualche altro console di tal nome; ma le concordanze con la probabile età dei donatori non consentono di andare molto a ritroso nel tempo per la comprensibile durata media che può avere la vita umana. Quindi, il monastero di S. Giovanni in Figline è sicuramente anteriore al 1009, ma non sappiamo se con "fondazione" si voglia in realtà indicare un riconoscimento ufficiale ad un insediamento monastico già esistente oppure ad una vera e propria edificazione del monastero di Figline; ciò in virtù del fatto che all'epoca la chiesa era solita prendere possesso legittimo, come diremo appresso di antichi manufatti del culto pagano o abbandonati. Resta certo che intorno all'anno mille: · esisteva un monastero di S. Giovanni Evangelista in Figline; · veniva "riedificata" la chiesa già esistente di Maria della Civita. Resta incerto quanto tempo prima dell'anno mille, questi due luoghi, l'uno di natura monastica e l'altro più propriamente di culto, fossero già esercitati nell'area montana di cui trattiamo. Queste incertezze storiche di fondazione sono presenti in quasi tutti i luoghi di culto che affondano le loro origini nella più alta antichità, sia perché essi si sono andati formando attraverso la continua e persistente frequenza popolare, sia perché nessuno poteva sospettare, all'origine, la persistenza millenaria di un culto su quei luoghi, sia perché le continue guerre e devastazioni sostenute dal territorio possono aver contribuito alla dissoluzione dei documenti di fondazione o di quegli altri da cui poterla dedurre; non ultima anche l'incuria umana nella conservazione delle antiche carte. Non vi è dubbio però che la diffusione del credo cristiano in quest'area può farsi risalire alla più alta antichità non fosse altro che per la presenza della "Regina Viarum", della via Appia, che ne attraversa tutto il settore pedemontano e della cui importanza quale arteria di comunicazione mi pare fuori luogo insistere. A questo proposito ci viene in aiuto anche la tradizione religiosa che fa risalire l'arrivo della Sacra Effigie in questi luoghi civitani al tempo della lotta iconoclasta. La documentazione storica che fa risalire l'esistenza dei due luoghi di culto intorno all'anno mille è del tutto muta fino ad oggi circa le sue condizioni nell'epoca precedente. In assenza della documentazione storica sull'argomento e relativa agli anni dal 500 al 1000 siamo costretti a riferirci alla tradizione religiosa tramandata fino a noi ed a dichiararla quale verità possibile e non in contrasto con la realtà storica, ciò deducendo dalle condizioni storicamente conosciute di quell'epoca. Altrettanto finora non sembra potersi affermare per il monastero di S. Giovanni Evangelista in Figline che pare essersi dissolto nel nulla senza lasciare tracce concrete della propria esistenza anche se afferma il padre Guanelliano Ignazio Lombardini[1] a proposito della contrada "Figline": La contrada è una valletta amena circondata dai monti: Civita, Le Vele Canneto e Larigno. E' in territorio di Itri. Deve il suo nome a « figlinum» (oggetto di terra cotta). Nella parte più alta della zona ancor oggi c'è creta; i paesani usano ancora la dizione: "campi della creta". In tempi passati vi fabbricavano tegole, pochi anni or sono vi si voleva installare una fabbrica di laterizi, ma si desistette dal progetto per le obiettive difficoltà esistenti di trasporto e di accesso. Verso il fondo della valle — oggi quasi abbandonata, ma prima coltivata diligentemente e abitata—si estende una zona a dorso di mulo, chiamata « campo dei muri ». Lì esisteva il monastero benedettino, come ne fanno fede le fondamenta, le molte mattonelle di cotto e anche i resti umani ritrovati dai contadini quando aravano. Lì presso c'è il cosiddetto campo di San Felice, che richiama il santo omonimo del monastero benedettino di Fondi. Infatti, afferma sempre il Lombardini[2]: L'ultimo documento che si conosce riguardo a Fellino è la Bolla "Effectum iuxta", di papa Alessandro III, del 30 marzo 1170, con la quale il Pontefice conferma alla diocesi di Gaeta il possesso delle chiese di sua giurisdizione. Opiniamo, non senza ragioni, che il monastero sia scomparso, travolto da una frana. E qui emerge il problema che sempre si presenta a quanti vogliono approfondire la conoscenza dell'altopiano aurunco: non si sono fatti mai saggi archeologici di rilievo; non si sono mai affrontati studi approfonditi compulsando le antiche carte ancora esistenti e mettendole a confronto col territorio; le vicende di questa terra si continuano a narrare oralmente o attraverso i "faticati" scritti dei monaci cassinesi o di privati cittadini studiosi che con grandi sacrifici hanno raccolto nel passato le nostre patrie memorie. Ma adesso torniamo ai secoli che vanno dal 500 al 1000. Fino al 726 - in cui ebbe inizio la lotta iconoclasta - la diffusione del credo cristiano nelle nostre contrade aveva seguito, più o meno, lo stesso itinerario che si era verificato per le altre zone dell'Italia centro-meridionale. Per iconoclastìa s'intende la distruzione delle immagini sacre. Nelle lotte che travagliarono la Chiesa e l'Impero d'Oriente durante i sec. VIII e IX, l'imperatore Leone III Isaurico ordinò la distruzione di tutte le immagini sacre (726), per frenare il loro culto eccessivo da parte delle masse, ma anche per limitare il grande potere che il clero esercitava sul popolo. L'inevitabile conflitto con le autorità ecclesiastiche portò alla destituzione del patriarca di Costantinopoli e a violente sollevazioni popolari seguite da durissime repressioni. Papa Gregorio II e, più tardi, il successore Gregorio III si opposero inflessibilmente all'iconoclastia e il conflitto costò all'Impero la perdita di quasi tutte le province italiane. L'iconoclastia, mentre incontrò il favore dell'esercito e delle province asiatiche, fu violentemente contrastata nelle province europee e nella capitale e soprattutto in Italia, dove il papato (Gregorio II e Gregorio III) alimentò l'opposizione antibizantina, ponendo le condizioni della graduale riduzione dei domini bizantini in Italia, per opera dei Longobardi e poi dei Franchi, all'estremo Mezzogiorno. Nel 787 fu convocato un concilio, a Nicea, che deliberò la liceità del culto delle immagini; tuttavia nell'815 l'imperatore Leone V Armeno riprese la lotta che durò poi fino all'843, quando 1'imperatrice Teodora accettò finalmente i decreti conciliari. In Oriente, i due concili dell'869 misero fine alla lotta. Si deve inquadrare in quest'epoca la tradizione religiosa che ci racconta dell'arrivo della Sacra Effigie sul monte Civita anche se nessuna documentazione storica particolare ci aiuta a risolvere il mistero. La tradizione religiosa vuole che alcuni monaci greci per salvare il quadro della Vergine dipinto da San Luca, approdati a Gaeta, lo consegnassero all'abate di San Giovanni Evangelista in Figline che lo espose alla venerazione dei fedeli nella cappelletta trasformatasi poi nel corso dei secoli nel grandioso santuario di oggi. La tradizione religiosa della presenza di monaci greci sull'altopiano aurunco non contrasta con la documentazione storica che andiamo raccogliendo e che dimostrano come essi proprio intorno al mille fossero numerosi specialmente a Pontecorvo e nel territorio di Roccaguglielma (che arrivava fino all'attuale Campello itrano) tanto da dar vita a diversi importanti insediamenti nell'area chiamata della "Foresta" che comprendeva il territorio che parte appunto da Campello e raggiunge l'attuale contrada Badia di Esperia (dove scorre un fiume indicato col nome di Forma Quesa). La lotta iconoclasta rappresenta comunque un episodio dei contrasti sociali con i quali si tentò di contrastare la diffusione del credo cristiano. Altri contrasti già si erano verificati e continuavano a verificarsi nell'attuazione della normativa favorevole ai cristiani prevista dal Codice Teodosiano che permetteva appunto alla chiesa di appropriarsi dei templi pagani e non sempre queste spoliazioni, in danno del culto pagano ed in nome della nuova religione avvenivano pacificamente, come ci raccontano o ci fanno intendere le cronache del tempo. Scrive G. Beretta[3] in merito alla distruzione dei templi pagani: "Tra il 390 e il 392, l'imperatore Teodosio il Grande[4], a suggello della sua rinnovata alleanza con il vescovo di Milano Ambrogio ‑ e attraverso di lui con tutto il mondo cattolico e il suo dio ‑, promosse una serie di provvedimenti giuridici avversi al paganesimo con una forza che fino a quel momento non era stata ancora mai messa in campo. Una serie di costituzioni successive[5] ripete e precisa divieti e sanzioni ai danni di quanti <sono macchiati dall'errore del culto pagano>, con un'insistenza che, se da una parte denuncia la resistenza della popolazione e del corpo amministrativo ad aderire agli ordini dell'imperatore, non lascia però dubbi sulla determinazione dell'imperatore a renderli esecutivi. Teofilo[6] approfittò immediatamente di questa nuova contingenza politica: «egli ‑ racconta Sozomeno ‑ trasformò in una chiesa il tempio di Dioniso che si trovava nella città: fattane richiesta all'imperatore, lo aveva infatti ricevuto in dono»[7]. Anche Socrate Scolastico[8] insiste sulla responsabilità di Teofilo e sulla complicità dell'imperatore: «per la sollecitudine di Teofilo ‑ scrive Socrate ‑ l'imperatore ordinò di distruggere i templi degli elleni in Alessandria e questo avvenne per l'impegno dello stesso Teofilo»[9]. Socrate Scolastico che, va detto, non ha particolare simpatia per i culti pagani, non manca però di ricordare che quello compiuto da Teofilo fu un atto riprovevole di dominio e di umiliazione: «egli ‑ commenta ‑ fece tutto quello che era in suo potere per recare offesa ai misteri degli elleni», e così dopo aver deturpato i luoghi sacri, espose a ludibrio gli oggetti di culto in essi contenuti, che per generazioni erano stati gelosamente custoditi dai sacerdoti elleni". Per i luoghi più vicini a noi, scrive P. D'Ottavi[10]: "Abbiamo scritto che san Benedetto fu costretto ad allontanarsi dal sublacense sotto la spinta del Vescovo di Treba, che agitò contro il santo il presbitero Fiorenzo, per motivi di invidia a causa delle numerose donazioni che il santo aveva ricevuto e che turbavano l'autorità religiosa del posto, che si vedeva nelle donazioni preferito il santo. Che questo sia vero è provato proprio dagli avvenimenti che sono seguiti alla fuga. San Benedetto, infatti, fuggendo a Cassino, non si avvale o ricerca una donazione per costruire un nuovo monastero, ma ricorre all'utilizzazione di un tempio antico pagano e delle aree circostanti di servizio del tempio stesso, che non era costituito certo da fondi agricoli o fondi privati, ma ricadeva nel demanio[11] pubblico disponibile per usi religiosi. In proposito c'è da tener presente che con l'affermazione del Cristianesimo i templi pagani, che rappresentavano pur sempre monumenti notevoli, o per alcuni casi i soli monumenti esistenti, furono comunque salvaguardati dalla possibile furia devastatrice dei primi cristiani, che certamente li avrebbero voluti abbattere per eliminare le fonti dell'idolatria, con disposizioni imperiali in forza delle quali gli antichi monumenti religiosi, i luoghi di culto pagano, i templi[12] dovevano essere comunque protetti con la possibilità automatica per i cristiani di riusarli, salvaguardandoli, e destinandoli a chiese per la nuova religione. San Benedetto, che conosceva la norma, e che non voleva più avere a che fare con le donazioni, ricorre per questo al riuso di un tempio pagano sito nel culmine di Monte Cassino, che era per questo demanio pubblico disponibile per le sue esigenze". L'imperatore Maggioriano[13] tra il 457 e il 460 emanò disposizioni a tutela dei monumenti. Teodorico[14] emanò editti per impedire il degrado, l'abbandono e i furti nei monumenti. Giunge quindi a proposito qualche autorevole contributo dei tempi nostri col quale si fa intendere come la grande platea sostruttiva della chiesa civitana potrebbe appartenere a preesistenze edilizie romane[15] e se tale sospetto si tramutasse in realtà con appropriate indagini archeologiche, si potrebbe storicamente accertare il culto di Maria della Civita molto più indietro nel tempo. Negli ultimi trecento anni del primo millennio dell'era cristiana sull'altopiano aurunco si assiste ad una consistente affluenza di monaci greci, colonizzatori di queste contrade abbandonate o disorganizzate, dove la gente della piana si rifugia per sfuggire alla ferocia degli invasori barbari e saraceni. La presenza religiosa dei monaci greci costituiva punto di riferimento e un centro aggregante per la gente sperduta ed in cerca di sicurezza. Non è un caso quindi che proprio all'apice della loro diffusione, intorno all'anno mille, si verificano importanti donazioni in loro favore proprio a riconoscimento della loro incisiva opera di consolidamento demografico su un'area destinata altrimenti alla desertificazione. L'ambiente ospitale di queste contrade contrarie alla persecutoria lotta iconoclasta e la conoscenza delle leggi che consentivano alla chiesa di appropriarsi degli edifici del culto pagano permisero ai monaci greci di ingrossare le proprie presenze su questo altopiano aurunco. Basti pensare che questi santi monaci del VI secolo italiano sono ora cenobiti, ora eremiti. Fra i primi si nota soprattutto Onorato il cui monastero di Fondi si popola presto di duecento monaci[16). Del pari essi consentirono alla gente fuggiasca di trovare qui, isolata e nascosta dai luoghi costieri e di pianura più esposti alle scorrerie degli invasori, diversi punti di aggregazione civile e religiosa dove dissodare e produrre con quella relativa serenità che i tempi consentivano, per tirare avanti la vita. Tutti questi insediamenti monastici, terminata la furia iconoclasta, e, quindi, il flusso migratorio proveniente dall'oriente, furono man mano assorbiti dai benedettini cassinesi dopo un periodo di osservanza mista latino-orientale della regola poiché in parte di orientali ed in parte di benedettini era formato il personale monastico durante questo periodo intermedio. Possiamo, quindi, confermare che, tra l'anno 726 ed il mille, la Vergine dall'Oriente giunse sul monte Civita e che la tradizione religiosa non contrasta con la documentazione storica; di più le antiche documentazioni storiche non ci lasciano dire. Possiamo, però, affermare con certezza religiosa e storica che Maria SS.ma della Civita da mille anni è Regina di questi monti e Signora degli uomini e delle donne che ad esso guardano con speranza di pace.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Sulla storia del monte Civita e del suo Santuario dedicato alla Madonna resta fondamentale il volume di mons. Ernesto Jallonghi, La Madonna della Civita e il suo santuario, stampato da Città di Castello nel 1916 e ristampato in copia anastatica a Latina nel 1986 a cura di Alfredo Saccoccio che l'ha dotata di una interessante prefazione. Un altro grosso tomo fu curato dal sacerdote dell'Opera Don Guanella Ignazio Lombardini col "Maria della Civita!…", Casamari, 1976. Questo volume, ormai introvabile, è una sorta di "miscellanea civitana" nella quale si può trovare di tutto per iniziare una qualsiasi ricerca sul pio luogo e sul territorio circostante. Infine, nel 1996, il Centro Regionale per la Documentazione dei Beni culturali ed Ambientali del Lazio, per i tipi della Fratelli Palombi Editore di Roma ha pubblicato un volume di ricerche col titolo La Madonna della Civita. Itinerari culturali nei simboli, nei linguaggi e nella storia, nella collana editoriale "I segni del Sacro". In campo religioso cercò l'appoggio della Chiesa e volle il cattolicesimo come unica religione dello Stato per rinforzare l'unità dell'impero: per questo avversò apertamente il paganesimo e nel 381, nel Concilio di Costantinopoli, ribadì la condanna dell'arianesimo e i deliberati di Nicea. Ucciso Graziano nel 383, Teodosio riconobbe il nuovo Augusto Magno Massimo lasciandogli la Gallia, la Britannia e la Spagna mentre la prefettura d'Italia, d'Africa e dell'Illirico passarono a Valentiniano II; l'impero rimase così diviso in tre parti in un rapporto di reciproco equilibrio, che però non durò a lungo: nel 387 Massimo si impadroniva dell'Italia e dell'Africa, ma l'anno successivo veniva sconfitto da Teodosio a Siscia e finiva ucciso ad Aquileia, così che Valentiniano II ebbe tutto l'Occidente. Constatata nell'aristocrazia senatoria la persistenza di correnti favorevoli al paganesimo tradizionale, Teodosio cercò di rendersi indipendente dall'ingerenza della Chiesa, rifiutandosi p. es. di compiere la penitenza impostagli da Ambrogio nel 390 per l'eccidio di Tessalonica. Ma poi compì la penitenza e continuò ancor più decisamente nella lotta al paganesimo: nel 391 ordinò la chiusura di tutti i templi e dichiarò sacrilego ogni atto di paganesimo. Nel 392, a Vienne, Valentiniano II fu ucciso; Arbogaste, il magister militum che lo stesso Teodosio gli aveva affiancato, nominò Augusto Eugenio, che raccolse attorno a sé le superstiti correnti filopagane, ma il 6 settembre del 394 Teodosio lo affrontò e lo vinse sul fiume Frigido (Vipacco) nelle Alpi Giulie, sconfiggendo definitivamente, con lui, anche le ultime resistenze pagane. Rimasto solo al vertice dell'impero, Teodosio attribuì l'Occidente al figlio Onorio, cui affiancò il magister militum Stilicone, e l'Oriente all'altro figlio Arcadio, cui affiancò invece il prefetto del pretorio Rufino. Ricimèro (lat. Ricimer‑eris), generale (magister militum e patricius) dell'Impero romano (m. 472). Di nazione sveva, divenne onnipotente dopo aver distrutto nelle acque della Corsica una flotta dei Vandali (456), che 1'anno precedente avevano saccheggiato Roma. Con l'aiuto di milizie barbariche stanziate in Italia eliminò l'imperatore d'Occidente Avito (457), lo sostituì con Maggioriano e fu da allora l'arbitro della dignità imperiale in Occidente, del resto ormai pressoché formale. Deposto Maggioriano, (461, elevò Severo e, alla morte di questo, governò per un biennio (465‑467) senza imperatore. D'accordo con Zenone, imperatore d'Oriente, riconobbe poi Antemio, ma non tardò a ribellarglisi e, con l'appoggio dei Vandali di Genserico, lo uccise ed elevò Olibrio (472). L'Edictum regis Theodorici consta di 154 capitoli, un prologo e un epilogo. La tradizione lo vuole emanato da lui ma l'attribuzione non è del tutto provata ed è tuttora oggetto di discussione. Varie ipotesi si sono fatte circa la datazione: forse 500 e 506 o 524. Essendo andati perduti i codici più antichi, il testo in nostro possesso si basa sull'edizione fatta da Pithou nel 1579. Nell'Editto predominano i principi del diritto romano e non si esclude che sia stato redatto da giuristi romani.
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