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©Statuto cinquecentesco di Itri
di Albino CECE
(studio)
Toponimi nello Statuto di Itri
Il documento cartaceo che contiene lo Statuto di Itri si compone di 218 capitoli ed è l'unico manoscritto conosciuto che si trova presso la Biblioteca del Senato per donazione del senatore Errico Amante di Fondi.
Si tratta di una copia dell'originale (di cui oggi non si ha più traccia) compilata dal notaio de Bellis (forse Nicolantonio, vivente nel 1549) nell'anno 1534.
Errico Amante, nei suoi Statuti della Città di Fondi, scriveva che: Gli Statuti itrani hanno una importanza speciale, perché accennano ad antichi usi e costumanze itrane, a famiglie ancora superstiti di quel comune e contengono molte prescrizioni municipali che potrebbero essere studiate per accomodarsi ai dì nostri.
Ed infatti, solo scorrendo i titoli dei 218 capitoli che li compongono si resta meravigliati circa la speciale attività di questa popolazione che all'epoca poteva contare già circa tremila abitanti (anno 1532 = fuochi 549, cioè 2745 abitanti ai quali si devono aggiungere gli esentati dai pagamenti fiscali; nel 1561 ad Itri si contano 734 fuochi e 760 nell'anno 1595).
Questi sono i toponimi rintracciati nel documento dal prof. Angelo De Santis e pubblicati nei propri diversi lavori sull'argomento. Altri, di cui abbiamo trovato più corposa documentazione sono stati pubblicati nel precedente capitolo I. Ecco intanto quei toponimi itrani che sono presenti soltanto nello Statuto di Itri e che non abbiamo trovato in altri documenti consultati.
Arde;
Campo de Fore;
Camporotondo;
Forcella delle Rave (Rave si fa derivare da labes, macigno, sasso);
Fossa di Rica;
Monte delle Fuse;
Riali (Uriali?);
Sasso Grande;
Teula Roya;
Torricella;
Valle Calfello;
Valle Costantino (il nome di Valle Costantina è riportato dal Lombardini tra i toponimi derivati da personaggi e famiglie. Una "possessio Iacobi de Constantino" è compresa tra i confini della proprietà alla Valle (posta ad est di Itri) che Leone Sirileone dà, il 6 ottobre 1313, a Nicola, priore di Santa Maria di Itri in cambio di una rendita annua proveniente da un possedimento sito in località Iuvenci (Giovenco)[1];
Valle Flomana;
Valle Oliva;
Valle Penegia.
Il problema degli anni 1532-34
A. De Santis, trattando del suo statuto[2], scriveva di Itri come "un piccolo paese di origini latina, che dev'essere stato importante perché difendeva il passo dell'Appia, si sviluppò nel medioevo. Le prime notizie datano dal 914, figurando in un atto di vendita della casa di uno Stefano itrano[3]; nel secolo seguente compaiono il territorio ed il castro itrano[4]".
Generalità
La desolante banalità delle norme fotocopia contenute negli Statuti adottati dai comuni in attuazione delle recenti leggi governative riguardanti sia i nuovi ordinamenti sulle autonomie locali che la cosiddetta trasparenza amministrativa, impongono il ricordo degli antichi Statuti medievali che sono una mirabile sintesi del diritto romano, germanico, canonico e comune.
Gli Statuti della terra Aurunca non sono stati ancora studiati e, come tante altre patrie memorie di questa terra, aspettano quegli approfondimenti che si rendono necessari per offrire un senso alla coesione sociale di quest'area subalterna per necessità a quelle romana e napoletana.
Per quanto ne sappiamo, il solo autore (benemerito, longevo e attento ricercatore) a trarre dall'oblìo degli archivi gli statuti dell'area aurunca è stato Angelo De Santis i cui lavori, dispersi su decine di riviste periodiche, impongono alle amministrazioni locali uno sforzo economico e culturale per affrontare la loro ricerca ed il loro riordino.
Infatti, non possono bastare a far questo le iniziative di associazioni e privati; l'opera omnia dei lavori del De Santis deve essere supportata da capitali che, allo stato attuale, essi non sono in grado di padroneggiare.
Circa gli statuti della terra aurunca, essi sono stati raccolti e ripubblicati in anastatica per la sensibilità culturale dell'avv. Cosmo Damiano Pontecorvo nel 1980/81 per conto del Centro Storico Culturale "Andrea Mattei" di SS. Cosma e Damiano - Scauri.
Ma di essi il De Santis, certo a causa della sempre presente impossibilità economica dell'epoca delle sue ricerche e che si tramanda fino ad oggi come una maledizione per quest'area, ha pubblicato soltanto un sunto peraltro documentato, osservato e integrato.
Perciò, queste ricerche restano tuttora fondamentali per farci comprendere le condizioni di vita dei primi secoli di questo millennio entro le quali si muoveva l'umanità aurunca e rappresentano una sollecitazione sia alla pubblicazione integrale dei capitoli (la biblioteca del Senato ne conserva copie originali) sia a stimolare studi più particolari.
Per esempio, per ITRI viene citato un castello di Antignano di cui nessuno sembra più aver ricordo alcuno.
Alla base di questi statuti vi sono le "charta libertatis" che ogni comunità si guadagnava "sul campo" per uscire dalle gravose imposizioni di tipo feudale.
Detto questo, continuiamo riportando qualche notizia particolare circa lo Statuto di Itri non potendo, nel far ciò, prescindere dal lavoro del De Santis.
Lo Statuto di Itri
"Secondo l'opinione del Notarjanni, accettata dal compianto mons. Jallonghi, il quale alla sua terra natale ha dedicato studi dotti e appassionati, il luogo si cominciò a chiamare così quando tra i monti si fece passare la via Appia, che in realtà attraversa l'abitato di Itri, tra Fondi e Formia. Il nome sarebbe derivato spontaneamente dal latino iter. Con questo il Jallonghi riconnette anche il nome della contrada Penitro (cioè presso la strada), nel territorio di Castellonorato sulla provinciale Formia-Cassino: nome che si trova più volte registrato anche nel catasto antico di Castellonorato (ad Pinitro). Cita per altro un cognome o agnome Itrius di una iscrizione del Corpus, ed esclude che possa derivare da Idrus, serpente acquatico, che si trova scolpito in Itri alla porta della Costa ed è diventato lo stemma del Comune"[5] .
Ma la questione dell'origine del nome di Itri resta tuttora aperta e di essa ci siamo già occupati sulla rivista “Civiltà Aurunca”[6].
Il De Santis in un'altra ricerca riassume quanto scrivono di Itri i viaggiatori dei tempi passati.
Ma ritorniamo adesso agli statuti della città. Il documento cartaceo si compone di 218 capitoli ed è l'unico manoscritto conosciuto che si trova presso la Biblioteca del Senato per donazione del senatore Errico Amante di Fondi.
Si tratta di una copia dell'originale (di cui oggi non si ha più traccia) compilata dal notaio de Bellis (forse Nicolantanio, vivente nel 1549) nell'anno 1534.
Errico Amante, nei suoi Statuti della Città di Fondi, scriveva che: Gli Statuti itrani hanno una importanza speciale, perché accennano ad antichi usi e costumanze itrane, a famiglie ancora superstiti di quel comune e contengono molte prescrizioni municipali che potrebbero essere studiate per accomodarsi ai dì nostri.
Ed infatti, solo scorrendo i titoli dei 218 capitoli che li compongono si resta meravigliati circa la speciale attività di questa popolazione che all'epoca poteva contare già circa tremila abitanti (anno 1532 = fuochi 549, cioè 2745 abitanti ai quali si devono aggiungere gli esentati dai pagamenti fiscali; nel 1561 ad Itri si contano 734 fuochi e 760 nell'anno 1595).
Alcuni articoli si riferiscono alla coltivazione dell'olivo, della vite e degli orti, ma anche alla concia delle pelli, alla macellazione degli animali e all'arte molitoria come anche alla coltivazione e preparazione del lino; vi si regolano anche le vendite di generi di prima necessità.
Il pesce potrà vendersi alla "pietra del pesce" soltanto nei giorni in cui non si vende la carne.
I privati possono vendere la farina a decima e oltre ma soltanto al prezzo che la domenica precedente è stato praticato alla "rabia" [7].
Le immondizie e gli scarti della macellazione doveva essere gettato sotto il molino di S. Croce oppure nei suoi pressi dove esisteva un canale (forma) in muratura.
Diversi capitoli (e questo appare certamente straordinario) si occupano del clero locale.
I chierici o gli oblati di Itri o qui residenti che fossero trovati a procurare danno alle possessioni itrane da soli o con le bestie sono sottoposti alle pene comuni purché accusati davanti al vicario del vescovo che si trova in Itri.
Ai cittadini o residenti in Itri che abbiano un fratello od un parente prete è vietato convivere con questo (ad uno pane et uno focho); il prete è obbligato a stare spartuto (diviso dalla sua famiglia).
I preti che si trovano proprietari da almeno 25 anni di possessioni o altri beni stabili in Itri sono obbligati "da mo innanzi a pagare le collette… e porli in catasto"; per i futuri acquisti si deve applicare la stessa norma.
I preti "quando cantano le prime messe" e danno convito non possono accettare in regalo più di un carlino dai convitati e più di cinque dai parenti stretti.
Alla chiesa dell'Annunziata, ricordata dal conte Onorato Caetani nel suo testamento del 26 marzo 1363, sono dedicati otto capitoli dello Statuto poiché in essa di solito si adunavano il Consiglio e il Sopraconsiglio degli uomini dell'Università.
Al servizio di questa chiesa erano destinati non più di sei preti che si mantenevano oltre che con le offerte anche con il quartuccio del pesce.
Presente all'adunanza del 7 gennaio 1474 troviamo un arciprete di Campello che potrebbe essere Johannes Cicci Cardogna che figura in questa carica otto anni prima, il 19 gennaio 1466, come si rileva da Caetani, Reg. Chart., V, 259.
Don Gio: Paganello, capo dei preti dell'Annunziata di Itri alla data del 7 gennaio 1474, lo ritroviamo nel 1478 rivestire la funzione di arciprete di Campello. Infatti, nella attuale località montana sita tra Campodimele ed Itri, esisteva un castello che fu abbandonato nella seconda metà del 1400.
Lo Statuto vieta a chiunque di portare un morto a sepoltura se non vi sia una richiesta dei consanguinei; all'esecutore testamentario o ai consanguinei del defunto spetta la divisione dei ceri a favore dei sacerdoti, chierici e portatori del feretro.
Il 10 febbraio del 1490 veniva costruita una fontana in località Le Festole con un acquedotto che scendeva verso i Itri lungo i monti Fusco e Tigoli.
Nello statuto viene recepito un bando del conte Onorato di Fondi del 27 gennaio 1456 col quale si disponeva che nelle feste nuziali non dovevano farsi "più che due magnari" (due portate) e che i regali dei parenti stretti non debbono superare i cinque carlini e quelli dei convitati non più di un carlino.
Una attenzione particolare pone lo statuto alla caccia dei colombi salvaguardando i diritti di libera caccia in diversi plagali, cioè terreni lasciati liberi e attrezzati apposta per tale caccia che, si dice, d'antica consuetudine; si prevedono pene severe per quanti arrecano danni alle sistemazioni di tali plagali.
Queste notizie, come abbiamo anticipato, le dobbiamo all'accortezza di Angelo De Santis e di quanti hanno ripubblicato i suoi lavori.
Il problema degli anni 1532-34
La recente pubblicazione dello Statuto di Maranola curata dal prof. Fernando Sparagna è stata redatta sull'unica copia esistente riferita al 1532; l'unica copia ancora esistente dello statuto di Itri ancora non pubblicata fu compilata nel 1534.
Cosa era successo negli anni '30 del 1500 per consigliare la copia degli strumenti statutari di queste due università?
Lo statuto di Fratte (Ausonia dal 1862), che è una copia dell'originale finita di trascrivere il 3 gennaio 1745, ebbe la sua prima convalida proprio nel 1532. Infatti, l'8 dicembre 1532, Isabella Colonna Gonzaga, così come richiesto dall'Università di Fratte nel secondo comma del capitolo 82, confermava "tutti i capitoli, statuti, consuetudini usati fino al presente giorno".
Quale fu la ragione che spinse l'Università di Fratte a chiedere la conferma dei capitoli a Isabella Gonzaga nel 1532 ed a ricopiare i propri statuti quella di Maranola nello stesso 1532 e quella di Itri nel 1534? Invece quella di Fondi li fece ricopiare nel 1539.
Riteniamo che le ragioni debbano essere ricercate nei laceranti contrasti insorti tra Giulia Gonzaga, seconda moglie vedova ed erede universale di Vespasiano Colonna morto a Paliano il 13.3.1528, e Isabella Colonna, figlia di primo letto dello stesso conte di Fondi e duca di Gaeta, per il possesso esclusivo del dominio; ma questa è un’altra storia.
[1] C.D.C., III, 1, c. 434, a. 1313, p. 28-30.
[2] A. DE SANTIS, Lo statuto di Itri.
[3] Tabularium Casinense, CDC, I, 41.
[4] CDC, I, 266, 325; II, 3.
[5] A. DE SANTIS, Orme di Roma nella toponomastica della regione Gaetana, Atti del IV Congresso Nazionale di Studi Romani, XVI, pp. 1-11, Roma 1938. Ristampato in: Saggi di Toponomastica Minturnese e della Regione Aurunca, presentazione di Luigi Cardi, Minturno 1990.
[6] A. CECE, Itri: origine di un nome; in: Civiltà Aurunca, anno XI, n. 30, Marina di Minturno, 1995, pp. 77-79. A. CECE, Brevi note di toponomastica itrana; in: Civiltà Aurunca, anno XVII, n. 42, Marina di Minturno, 2001, pp 47-54.
[7] Il termine "rabia", forse di origine araba, si trova anche negli statuti di Gaeta ed Ausonia e sta ad indicare la piazzetta delle contrattazioni, specialmente del grano, poiché nei magazzini siti su di essa si conservava il monte frumentario (il frumento per i poveri) insieme ai pesi e misure ufficiali della città.
(Questa studio può essere parzialmente utilizzato per ricerca, citando la fonte:Cece Albino, “Statuto cinquecentesco di Itri” nel sito Internet www.visitaitri.it)
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