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© Frà Diavolo un brigante?
di Albino Cece
Non siamo specialisti nella storia delle insorgenze, ma, invitati a parlare dell’itrano Frà Diavolo, ne accettiamo di buon grado l’onere.
Finora nel parlare e scrivere di Frà Diavolo non è stata mai citata una voluminosa e documentata pubblicazione dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano[1] che sulla definizione di brigante attribuita a Frà Diavolo, come si suol dire, taglia la testa al toro. In essa, infatti, si dice: “Nella rassegna passata ad Albano il 29 settembre 1799, la massa di Frà Diavolo contava 23 compagnie paesane con oltre 2.000 uomini (inclusi 20 elementi di stato maggiore, 886 massisti di Terra di Lavoro, 346 di Casoria, 598 dell'ex-Circeo, 44 esploratori calabri, 68 artiglieri, 59 cavalieri velletrani e 68 fucilieri a cavallo) e inquadrava anche la galeotta San Michele con 37 marinai e imprecisate "truppe da sbarco". Nell'ultima rassegna, passata sempre ad Albano il 20 novembre, era ridotta a 402 uomini, i cui eccessi dettero a Naselli un buon pretesto per ordinarne l'arresto. Lo eseguirono nottetempo i regolari di Bourkhardt e del brigadiere Ventimiglia, che rinchiusero Pezza e 300 dei suoi a Castel Sant'Angelo. Frà Diavolo evase poi ai primi di dicembre, riuscendo a raggiungere Palermo e ad ottenere udienza dal re che gli accordò il perdono confermandogli il grado e la pensione da colonnello”.
Dov’è quindi il “brigante” Frà Diavolo di cui si continua a favoleggiare?
Pur se debbo andare controcorrente sfatando quanto di leggendario si è detto e scritto di Frà Diavolo, al secolo Michele Pezza da Itri, occorre dire agli itrani ed al mondo intero che quest’uomo fu un vero patriota che tentò con tutte le sue forze – non importa perché e per come – di difendere Ferdinando IV di Borbone re di Napoli (1759-1799, 1799-1806, 1815-1816), re di Sicilia con il nome di Ferdinando III (Napoli 1759-1825), e in seguito Ferdinando I re delle Due Sicilie (1816-1825), e la sua terra dagli invasori Francesi, un prodotto nefasto della Rivoluzione Francese così come bene ha messo a punto di recente Pino Pecchia nel suo ultimo libro “Il Colonnello Michele Pezza (frà Diavolo)” attingendo a documenti inediti del tempo.
Rimpiango la perdita di un fascicoletto conservato nella mia biblioteca dal titolo “Il male che ci ha fatto la Francia” in cui venivano elencate e spiegate tutte le malefatte francesi nei riguardi dell’Italia.
L’invasione francese dell’Italia solo da poco tempo viene esaminata come fenomeno storico a se stante, svincolata quindi dagli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza propugnati dalla Rivoluzione sfociata nel Terrore e considerata per quello che veramente fu: l’arrivo in Italia di un’orda lacera e affamata che di tutto si appropriava, pubblico e privato, per sopperire alle necessità della soldataglia ed a quella di una Francia immiserita da una lotta cruenta tra le sue componenti sociali.
L’arrivo francese nel Regno di Napoli fu, quindi, considerata dalla gente un’invasione vera e propria che comportò espropri violenti di beni, proprietà e vite umane senza portare alcun nuovo tangibile benessere alle popolazioni.
Un particolare fin qui taciuto e che certamente ha pesato nella genesi delle lotte che hanno visto protagonista il nostro personaggio è la presenza ad Itri sin dal 1798 di uno dei cinque comandi di settore delle truppe napoletane di frontiera.
Nello stesso volume dell’Ufficio Storico dell’Esercito viene scritto: “Il 28 dicembre 1798 Rey passò il confine, marciando per Fondi sulla gola di Itri, difesa dalla batteria di Sant'Andrea, situata a sinistra della Spelonca. Il 29 Kniaziewicz forzò la gola con 600 polacchi, che poi saccheggiarono il paese dando alle fiamme il borgo dello Straccio e massacrando 60 vecchi inermi che non avevano potuto fuggire. Nell'estrema difesa della gola e poi del paese si distinse la massa locale riunita da Michele Pezza detto "Frà Diavolo" (1771-1806), un fuciliere del Reggimento Messapia tornato al suo paese dopo lo sbandamento del suo reparto. Suo padre fu tra le vittime civili dei polacchi”.
Violenza per violenza: non si può spiegare altrimenti la nascita e l’impiego delle cosiddette “truppe a massa”, volontariamente aggregate, che sotto l’azione strategica di Frà Diavolo dettero tanto filo da torcere agli invasori francesi.
La presenza dell’esercito napoletano e delle truppe “a massa” per combattere i francesi, gravava sul territorio in termini di vettovagliamento di cui si approvvigionavano direttamente presso le popolazioni locali; spesso non senza violenza.
Anche Frà Diavolo e le sue truppe, quindi, non furono esenti da colpe in tal senso creando anch’essi, per necessità, non pochi disagi alla gente comune.
Erano certamente tempi difficili e caotici: un esercito napoletano incapace di affrontare una guerra; una popolazione che subiva le devastazioni e le prepotenze francesi.
Infatti, la Corona Napoletana, prendendo atto della inferiorità del proprio esercito rispetto all’armata francese con l’editto del 24 luglio 1798, qualificato come legge fondamentale dello Stato, introdusse per la prima volta l’obbligo universale e personale di difesa armata generale della Patria. L’editto dichiarava “soldati” dalla nascita tutti gli individui “niuno eccettuato” con l’obbligo di “prendere le armi per la difesa Nostra Santa Cattolica Religione, della Real Corona, della propria vita e sostanze”.
Ecco perché, quindi, si alimentano le fila dei gruppi “a massa” e il mito di Frà Diavolo che non è soltanto un mito personale, ma un mito di legalità, di tradizioni, di popolo, della società aurunca e dell’intero Meridione.
Appare quindi di tutta evidenza che non ci si può limitare alla semplice equazione Frà Diavolo=brigante in quanto riduttiva assai e non riferibile al momento storico in cui si svolgono gli avvenimenti.
Il prof. Francesco Pappalardo scrive che: «[...] “sul piano storico brigante è anche il soldato, generalmente appartenente a "piccole compagnie di ventura”, e il partigiano: "Da brigare, "mettersi nella lotta, combattere”; se questo termine " [...] anticamente significava un soldato a piedi”, ora designa "gli assassini, i fuorusciti ed i nemici dell’ordine pubblico”. Nella storia della parola, dunque, "... si possono individuare due momenti distinti: il significato antico sostanzialmente positivo, e quello più recente, che, sorto da una degradazione del precedente, assunse sempre più quella connotazione di “fuorilegge”, che oggi prevale. Per il Lissoni questo senso moderno [...] sarebbe proprio del francese brigand (e, quindi, da rifuggire), come lo è il derivato brigantaggio, dal francese brigandage, fin dal 1410”.
Infine, il termine brigante ha acquistato anche un significato ideologico ed è stato adoperato per indicare in senso spregiativo quanti si sono opposti con le armi alla Rivoluzione: il "[...] nome di briganti è stato dato per esempio ai Vandeani realisti durante la Rivoluzione francese”; Giuseppe Boerio, autore di un Dizionario del dialetto veneziano, stampato a Venezia nel 1829, conferma per l’Italia l’uso del neologismo semantico: "Con tale nome erano comunemente chiamati nell’anno 1809 coloro che nelle varie nostre province si sollevarono"contro l’esercito rivoluzionario francese”.»
In questa sede uso il termine brigantaggio per designare la reazione armata delle popolazioni italiane contro il nuovo ordine rivoluzionario, in contrapposizione alla parola banditismo, che indica la “[...] ribellione di piccoli gruppi armati intesi a colpire nella loro ricchezza le classi agiate senza la prospettiva di rivolgimenti politici”.
Si può essere d’accordo o meno con le definizioni raccolte dal Pappalardo ma, in riferimento a quanto successo nelle nostre contrade assistiamo, dunque, ad un brigantaggio non di uno solo o di un gruppo, ma generalizzato a migliaia di persone inquadrate in compagnie militari – al comando di un colonnello dell’esercito borbonico, in piena ufficialità – impiegate a fronteggiare un’invasione straniera che si diceva portare gli ideali di una rivoluzione che non le è propria; assistiamo all’azione di partigiani che non combattevano una guerra civile ma si scontravano efficacemente contro un esercito invasore.
Se, quindi, Michele Pezza fu un brigante bisogna giungere alla conclusione assurda che briganti furono tutte le migliaia di persone che si strinsero, nella buona o cattiva sorte, attorno al suo vessillo di serpente con testa di cane.
Che poi il comportamento reale e le complicazioni del quadro politico e bellico, la vile tracotanza francese, lo portarono all’impiccagione sulla Piazza Mercato di Napoli (11 novembre 1806) si tratta della nemesi storica che colpisce gli eroi romantici che combattono per una causa giusta, perdendola perché hanno operato solo in difesa del popolo e lontani dalle beghe dei cicisbei annidati nei palazzi del potere.
Michele Pezza, un uomo d’azione, uno stratega aurunco, un patriota che ha dato la vita per difendere il suo popolo dalla truffa francese della libertà, uguaglianza e fratellanza e che nella sua Patria itrana avrebbe diritto quanto meno ad un monumento che lo ricordi in perpetuo.
Itri, 20 gennaio 2006
[1] V. ILARI – P. CROCIANI – C. PAOLETTI, Storia militare dell’Italia Giacobina (1796-1802), tomo I e II, Ufficio Storico Stato Maggiore Esercito, Roma 2001.
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Intervento (sintetizzato dall'autore) proposto nel convegno organizzato dall'ISALM di Anagni, tenuto al Museo del Brigantaggio di Itri il 20 gennaio 2006, dal pubblicista Albino Cece .
(Questa relazione può essere parzialmente utilizzata per uso di studio e ricerca, citando la fonte: Cece Albino, Frà Diavolo un brigante? , nel sito Internet www.visitaitri.it)
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